29 Giu Crowdsourcing intelligence e Convenzione di Ginevra
Lo scenario
Sul teatro di guerra ucraino starebbe facendo una certa differenza un app scaricata da circa 18 milioni di civili ucraini.
Il suo nome è Diia ed è stata sviluppata nel 2020 dal Ministero della trasformazione digitale ucraino per digitalizzare i servizi pubblici.
Sennonché in questa fase della storia ucraina, l’app viene utilizzata anche per segnalare alle autorità i movimenti delle truppe d’invasione russe.
L’applicazione infatti è stata implementata con una funzione denominata E.enemy che rinvia al chatbot ministeriale eVorog appoggiato sul servizio di messaggistica Telegram. Quest’ultimo, dopo aver verificato che il mittente non sia russo, chiede l’esatta ubicazione delle attrezzature o dei soldati nemici, oltre ad una foto o a un video della scena.
Poiché l’app ha mostrato una certa efficacia, da parte russa è stato lanciato un monito ai cittadini ucraini, insinuando che la funzione dell’app costituisca a tutti gli effetti uno strumento bellico, con la conseguenza che, ove un cittadino ucraino ne venisse trovato in possesso, potrebbe perdere il suo status di civile per assumere il ben più scomodo ruolo di combattente irregolare, attivamente impegnato nel conflitto, con pesanti ricadute in termini di garanzie umanitarie.
I civili ucraini, in breve, potrebbero essere considerati parte di un sistema di sorveglianza diffusa, in gergo ISR (Intelligence, Surveillance e Reconnaissance).
L’anatema russo poserebbe le sue basi sull’art. 51.3 del I Protocollo aggiuntivo del diritto dei Conflitti Armati, secondo cui i civili perdono la protezione loro accordata dalla Convenzione di Ginevra quando partecipano direttamente alle ostilità.
La questione non è di poco conto se si considera che, secondo la Convenzione di Ginevra, invero raramente rispettata, i civili non possono essere oggetto di attacchi da parte delle forze militari.
Viceversa il civile che partecipa direttamente al conflitto non solo può divenire un bersaglio delle truppe nemiche, ma, ove dovesse cadere nelle mani dell’avversario, potrebbe non godere delle garanzie riservate per legge ai prigionieri di guerra, rischiando di essere processato per il solo fatto di aver scelto di combattere con questa modalità.
Il diritto umanitario consuetudinario, infatti, non tutela efficacemente la figura del combattente illegittimo, cioè di quel combattente che non sia riconoscibile in base ad un’uniforme o a segni distintivi. Nelle peggiore delle ipotesi tale figura di combattente, soprattutto se svolge attività informative, potrebbe essere considerato alla stregua di una spia con tutto quello che ne consegue.
Cosa si intende per “partecipazione diretta alle ostilità”
Date queste premesse, appare, pertanto, di grande interesse esaminare se ad a quali condizioni l’utilizzo di Diia potrebbe essere compromettente per un civile a tal punto da determinarne la perdita del suo status.
Per rispondere al quesito, è evidentemente necessario definire il concetto di “partecipazione diretta alle ostilità”.
Inutile osservare come questa sia una delle espressioni più controverse del diritto umanitario, rinvenendosi sia interpretazioni molto estensive sia più rigorose a seconda dei casi e delle parti sul campo.
Tra queste, normalmente viene segnalata un’interessante pronuncia della Suprema Corte di Israele (sentenza 13 dicembre 2006) secondo cui possono rientrare nel concetto di partecipazione diretta l’utilizzo di armi contro l’avversario, la raccolta di informazioni inerenti al conflitto, il trasporto di combattenti, armi o munizioni sul luogo delle operazioni, lo svolgimento di compiti di comando nella pianificazione o decisione di attacchi, le attività di reclutamento di civili chiamati a partecipare agli attacchi.
E che la questione sia davvero seria lo si deduce dal fatto che, con tale pronuncia, Israele ha legittimato le cosiddette esecuzioni mirate nei territori palestinesi, assumendo come presupposto che in quelle aree sia in atto un conflitto internazionale.
La Commissione interamericana per i diritti umani ha poi stabilito che con l’espressione “partecipazione diretta alle ostilità” ci si deve riferire agli “atti che, per loro natura o scopo, sono destinati a causare un danno effettivo al personale e al materiale nemico“.
Ponendosi da una posizione ex ante come richiede la definizione, in effetti, appare difficile escludere da questo ambito le segnalazioni dei movimenti del nemico.
Ben più rassicurante per la parte ucraina è, invece, la posizione adottata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa che nel 2009 ha pubblicato delle linee guida sul punto.
In questo manuale la partecipazione diretta alle ostilità viene ricondotta sulla base di tre criteri: danno al nemico, nesso causale fra il danno e l’attività del civile, collegamento fra l’attività del civile e un conflitto armato.
Infine si deve valorizzare il fatto che, in base all’art. 50 del Protocollo 1 della già citata convenzione di Ginevra, “in caso di dubbio se una persona sia un civile, quella persona sarà considerata un civile.“
Download di un’app e status di civile
Tornando alla questione ucraina viene, quindi, da chiedersi se il semplice download di una particolare app sul proprio smartphone possa mettere a rischio lo status di un civile.
Volendo tentare una pragmatica difesa, crediamo si possano svolgere alcune semplici osservazioni:
- in primis l’app Diia non è un’ “app di guerra”, ci si passi l’espressione. Come già si è detto, Diia fornisce diverse funzionalità, tra le quali anche la possibilità di segnalare il nemico. Ne consegue che il semplice download dell’ app non può essere un elemento indiziante per trasformare un civile in un combattente irregolare, o, peggio, in una spia;
- si dovrebbe poi considerare che in Ucraina l’app in questione ha avuto 18 milioni di download su 44 milioni di abitanti; un bel successo se paragonato al risultato di 21 milioni di download su 60 milioni di residenti, riportato in Italia da Immuni. Se stiamo ai numeri, più di un ucraino su tre si è scaricato l’app, il che, ragionando come la parte russa, dovrebbe indurci a concludere che in Ucraina attualmente vi sarebbero milioni di combattenti irregolari, non protetti dalla Convenzione di Ginevra,
Appare pertanto più ragionevole prendere atto che il download dell’applicazione non è né una prova, né un indizio per stabilire se un soggetto stia partecipando o abbia partecipato direttamente al conflitto. L’app infatti è troppo diffusa per essere considerata un elemento indiziante, tanto più che la stessa non è usata solo per segnalare il nemico.
Infine contro la tesi russa, pesa il fatto per cui non tutti coloro che si scaricano un app, poi la utilizzano. Basta pensare alla mole di app inutili caricate sui nostri smartphone ed anche qui Immuni docet. Quanti di coloro che l’hanno scaricata, l’hanno poi attivata e utilizzata?
Ed a tal proposito, sotto il profilo concettuale, non c’è grande differenza tra Immuni e Diia se non rispetto al fatto per cui la prima è stato un fallimento, mentre la seconda rappresenta un successo.
Sulla prima, infatti, non si è creato il consenso necessario per formare una community disponibile a fornire le informazioni e l’ecosistema pronto ad elaborarle. La seconda, invece, ha catalizzato il consenso degli ucraini perché è stata supportata da un ecosistema ben strutturato e credibile.
Inoltre è evidente come Diia sia stata supportata da un’efficace comunicazione di Stato a differenza della campagna informativa riservata ad Immuni, che, indubbiamente è stata confusa ed approssimativa.
Infine, il nemico russo ha evidentemente acceso l’istinto di sopravvivenza degli ucraini che, invece, il nemico “pandemia” non ha allertato nella medesima misura.
A prescindere da queste considerazioni, il tool di Stato proposto alla popolazione per fronteggiare l’emergenza, in entrambi i casi, ha fatto leva sulla partecipazione dei civili e l’utilizzo dello smartphone.
Utilizzo dell’app e status di civile
Chiarito come, nemmeno sotto il profilo indiziario, il semplice download di un’ app possa essere considerato un atto di partecipazione diretta alle ostilità, il passo successivo è stabilire se la perdita dello status di civile possa avvenire nel momento in cui, attraverso un’attività di intelligence, un individuo venga colto nell’atto di utilizzare la funzione E-Enemy.
Qui, secondo il diritto consuetudinario, davvero si potrebbero aprire due scenari. Secondo un’interpretazione più restrittiva del concetto di partecipazione diretta alle ostilità, un utilizzo sporadico della app dovrebbe condurci a salvaguardare lo status di civile. Viceversa un utilizzo per così dire assiduo della stessa potrebbe procurare conseguenze deleterie per il soggetto che dovesse essere identificato e catturato.
Sennonché anche questa distinzione non brilla per chiarezza. Se, infatti, prima avevamo il problema di definire il concetto di partecipazione diretta, ora il dubbio si sposterebbe sulla distinzione tra assiduo e sporadico.
Sembrano, invece, più illuminati le linee guida, peraltro, come tutte le cose serie, non vincolanti del Comitato Internazionale della Croce Rossa, i famosi tre criteri già citati in questo articolo:
- danno al nemico
- nesso causale fra il danno e l’attività del civile
- collegamento fra l’attività del civile e un conflitto armato
Il pregio di questi criteri è di porsi in un’ottica ex post.
Qui non si tratta più di individuare degli atti diretti in modo non equivoco a cagionare un danno al nemico, ma di verificare caso per caso se un dato atto abbia cagionato uno specifico danno alle forze nemiche.
In particolare, a difesa degli ucraini, si dovrebbero porre le seguenti domande:
- Come si fa a stabilire se sia stata la segnalazione di uno specifico civile ad aver innescato una determinata azione militare con il conseguente danno per le truppe russe?
- Come si fa ad incolpare un singolo civile, soprattutto se l’app è in dotazione ad oltre 1/3 della popolazione ucraina talché la segnalazione può essere partita da molteplici soggetti?
- Come si ricostruisce infine il collegamento causale rispetto alla reazione sul campo delle truppe ucraine, ben potendo esserci innumerevoli altre situazioni, che nella filiera del comando ucraino possono interferire in una decisione militare, spezzando il nesso di causalità?
Stato e crowdsourcing
In una visione più generale, si può ritenere che la minaccia russa di disapplicare la Convenzione di Ginevra non tenga conto dell’attuale contesto temporale, talché appare completamente disancorata dalla realtà.
In tale ottica, non si può, innanzitutto prescindere, dalla concezione dello Stato.
Secondo Cicerone “lo Stato non è una qualsiasi aggregazione casuale di uomini, ma una moltitudine coesa dal consenso e dall’interesse comune dell’associato”.
Quest’idea della “res publica”, cioè dello Stato, teorizzata nel “de re re publica”, non solo è ancora attualissima, ma può essere all’occorrenza declinata sotto il profilo della potenzialità digitale.
Chi, all’alba di questo terzo millennio, decide di invadere uno Stato, non solo si trova a fare i conti con una resistenza fisica degli eserciti tradizionali e con i cosiddetti partigiani, ma anche con l’alter ego digitale della società civile, cioè con la cosiddetta community del web.
Questa società nelle sue espressioni migliori può essere molto più coesa che in passato e, soprattutto, può risolvere problemi complessi, preclusi ai singoli individui.
Tale capacità che la collettività ha di superare i limiti dei singoli prende il nome di crowdsourcing.
Smith nel 1994 ravvisa questo fenomeno quando “un gruppo di esseri umani svolge un compito come se il gruppo stesso fosse un organismo coerente e intelligente che lavora con una mente, piuttosto che un insieme di agenti indipendenti”.
Nella definizione di Pierre (1997), invece, il crowdsourcing, viene descritto come un’intelligenza collettiva, vale a dire “una forma di intelligenza universalmente distribuita, costantemente potenziata, coordinata in tempo reale e risultante nell’effettiva mobilitazione delle competenze.”
Esempi di questa intelligenza distribuita in ambito civile sono wikipedia, tripadvisor, l’app Waze, utilizzata dagli automobilisti che si scambiano informazioni sul traffico, ma ve ne sono innumerevoli altri.
Nella fattispecie bellica, il crowdsourcing assume le sembianze della crowdsourcing intelligence, che è esattamente quanto sta accadendo in Ucraina con l’app Diia.
Peraltro la crowdsourcing intelligence non è una pratica nuova, essendo stata largamente utilizzata, tra le altre, nelle crisi in Egitto, in Siria, in Libia e ancora nel post elezioni in Kenya nel 2008 per la mappatura dei rapporti di violenze così da valutarne le conseguenze sulle contestate elezioni del 2007.
Di particolare interesse poi, per quanto stiamo trattando, è l’app Sgsecure utilizzata dallo Stato di Singapore dal 2016 per fronteggiare il terrorismo e scaricabile dal sito governativo www.sgsecure.gov.sg.
Qui la “call to action” presente sulla piattaforma recita “SGSecure è la risposta della comunità di Singapore alla minaccia del terrorismo. È un movimento per costruire la resilienza della nostra comunità e un invito all’azione rivolto a tutti nella nostra società multirazziale e multireligiosa a unirsi per salvaguardare Singapore e il nostro modo di vivere“.
Impossibile in quest’ultimo caso non ravvisare analogie tra Diia e SGSecure.
Alla luce di queste considerazioni, è quindi, evidente come la reazione collettiva della popolazione civile ucraina sia perfettamente aderente a questa concezione potenziata di Stato inteso anche come intelligenza collettiva.
Anche sotto tale profilo, quindi, la tesi russa non ha fondamento, semmai tale situazione dovrebbe far riflettere sul fatto che il controllo dello spazio digitale nel mondo contemporaneo sia strategicamente importante almeno quanto quello aereo di cui si è fatto un gran parlare.
L’uomo politico all’epoca di internet
L’individualismo cede dunque il passo ad una nuova idea di uomo politico e di rapporto con la polis.
Nell’epoca dei social media, si ridefinisce il nostro modo di stare al mondo a tal segno che il filosofo Luciano Floridi parla di vita onlife.
Il nostro modo di vivere, infatti, mescola in modo oramai indistinguibile l’esserci online con l’esserci offline. Peraltro proprio in Ucraina internet aveva giocato un ruolo fondamentale già nella cosiddetta rivoluzione arancione del 2014.
Per quel che ci occupa è sufficiente osservare come un uso anche intenso di Diia sarebbe pienamente compatibile con le regole consuetudinarie del nostro stare al mondo da civili.
Se, infatti, nell’era predigitale non era cosa semplice passare un’informazione, oggi tale attività fa parte del nostro quotidiano e richiede un semplice smartphone, uno strumento che è alla portata di ogni individuo. A quest’ultimo, pertanto, lo Stato ucraino non richiede un quid extra, semmai è la parte russa a pretendere che durante il conflitto la popolazione civile della parte avversa si autocensuri, assistendo da spettatrice alla distruzione, cioè prestando al propria “res publica” un quid minus.
Sul punto appare persino superfluo richiamare la pronuncia oramai datata del Consiglio costituzionale francese, n. 669 del maggio 2009, secondo cui il diritto di accesso al web costituisce una libertà d’espressione e di partecipazione alla vita democratica.
Inoltre le segnalazioni dei movimenti russi costituiscono trasmissioni di dati personali tant’è che se l’Ucraina fosse nell’Unione Europea o se Telegram avesse sede nello spazio economico europeo si parlerebbe di trattamento di dati personali ex art. 4 GDPR.
E nell’Unione Europea l’interesse vitale della persona interessata o di altra persona fisica così come l’esecuzione di un compito di interesse pubblico costituiscono delle basi giuridiche per il trattamento dei dati personali, così come previsto dall’art. 6 GDPR.
Le segnalazioni delle truppe nemiche, pertanto, appaiono pienamente legittime, poiché negli ordinamenti giuridici democratici la circolazione delle informazioni di pubblico interesse è connaturata alla loro stessa esistenza.
Tant’è che già dal 2017 nella Conferenza RSA di San Francisco è stato posto il tema della necessità di una Convenzione di Ginevra digitale, riconoscendo in tal senso l’importanza che il cyberspazio rimanga un luogo sicuro durante i conflitti nonché il ruolo che esso svolge in termini di protezione della popolazione civile.
Dati questi presupposti, non può sfuggire l’anacronismo ed il carattere paradossale della posizione russa secondo cui un cittadino ucraino, per mantenere lo status di civile, dovrebbe astenersi dall’esercizio di quei diritti che in tempo di pace si ritengono pacificamente acquisiti.
E forse in senso più ampio, al netto del giudizio morale, tutto questo dovrebbe far riflettere su come in una società liquida, iperconnessa e globalizzata, la risoluzione dei conflitti attraverso il ricorso alla guerra pesante sul campo manifesti una visione strategicamente miope in quanto non aderente al processo evolutivo delle nostra specie.